Introduzione

Quali sono i fattori che determinano uno sviluppo sano del bambino?

A questa domanda gli studi e le ricerche nell’ambito della psicologia cercano di dare una risposta da molto tempo: fin dagli inizi del secolo scorso, infatti, la teoria psicodinamica freudiana e la teoria comportamentista, basata sull’apprendimento, hanno dato avvio ad importanti filoni di ricerca in questo senso, orientandosi fin da subito su come lo sviluppo del bambino fosse influenzato dalla sua relazione con il mondo circostante.

Il modello psicodinamico freudiano, nello specifico, ha posto originariamente l’attenzione sulle pulsioni del bambino alla soddisfazione dei propri bisogni che si incontrano con la tipologia delle cure materne, in grado di rispondere positivamente ai bisogni del bambino o meno. Le teorie comportamentiste, invece, hanno focalizzato l’importanza degli scambi e dei meccanismi di condizionamento appreso nell’interazione con l’ambiente. Sull’onda di questi primi filoni di ricerca, sono stati prodotti innumerevoli dati e osservazioni cliniche per chiarire sempre meglio i fattori determinanti lo sviluppo dell’individuo, al duplice scopo di avere elementi terapeutici significativi sulle disfunzioni o patologie e, al tempo stesso, avere elementi di educazione e prevenzione primaria.

Intorno agli anni Settanta, un contributo che diede una svolta significativa a questi filoni di ricerca è stato John Bowlby (1982), con l’introduzione e l’utilizzo del modello dell’attaccamento a questo scopo. Questa teoria trae radice dall’etologia e dall’osservazione del comportamento animale, riconoscendo l’istinto naturale di alcune specie animali, i mammiferi – in modo particolare – tra questi, a formare relazioni significative tra il cucciolo e l’adulto, allo scopo di garantire la sopravvivenza e lo sviluppo del piccolo.

In queste specie, il cucciolo tende istintivamente a legarsi a una figura adulta di riferimento, e questo istinto si accoppia strutturalmente con l’istinto dell’adulto ad accudire il piccolo. Si crea, così, una relazione speciale, significativa, di legame, tra cucciolo e adulto di riferimento, che funge da ambiente sufficientemente sicuro per il piccolo per crescere, svilupparsi e rendersi gradualmente autonomo.

Il modello dell’attaccamento ha dato una svolta fondamentale agli studi sullo sviluppo infantile, mettendo in luce, accanto ai bisogni e alle pulsioni fisiologiche del bambino, anche un profondo bisogno di relazione e di legame con la figura di riferimento. La relazione del bambino con la madre – o con le figure di riferimento – ha preso così una valenza più precisa e i bisogni relazionali di attaccamento hanno iniziato a diventare paradigmatici nella comprensione dei processi di sviluppo e nello studio della psicopatologia infantile e adulta.

Questi contributi hanno portato gradualmente ad una visione più complessa delle interazioni adulto-bambino nelle fasi precoci dello sviluppo e hanno progressivamente evidenziato l’importanza della qualità dell’interazione tra il bambino e la madre, o i suoi adulti di riferimento. Già Renè Spitz (1965), attraverso i suoi studi sui bambini ospedalizzati o in orfanotrofio aveva sottolineato come la cura e l’accudimento fisico, focalizzato sui bisogni biologici fondamentali non fossero sufficienti per uno sviluppo sano e completo: a questo scopo, sono determinanti anche l’attenzione e il calore umano delle cure, che passa, ad esempio, attraverso l’essere toccati, accarezzati e tenuti in braccio. In questa direzione, il modello dell’attaccamento ha spostato, così, in modo decisivo il riflettore sui bisogni di tipo relazionale e di sicurezza affettiva al fine di uno sviluppo sano e armonico.

Accanto e parallelamente agli studi sull’attaccamento, negli anni Settanta e Ottanta hanno assunto particolare rilevanza anche le ricerche che hanno esplorato la comunicazione affettiva ed emotiva del bambino con le figure di riferimento: queste ricerche hanno riconosciuto come il bambino sia in grado di dare segno di sé in modo precoce e adeguato fin dall’inizio del suo sviluppo. Edward Z. Tronick (1989) e Colwyn Traverthen (1984), in particolar modo, hanno messo in evidenza come il bambino, infatti, sia in grado di esprimere e riconoscere le emozioni già nei primi mesi di vita: non è quindi un soggetto passivo, ma a tutti gli effetti un soggetto in grado di interagire attivamente con l’adulto, seppure con strumenti comunicativi paraverbali. In questa dinamica interattiva con le figure di riferimento il bambino è in grado, inoltre, anche suscitare emozioni nei suoi interlocutori.

Riconoscendo questa capacità di comunicazione attiva da parte del bambino, anche il ruolo della madre, pertanto, nella comunicazione con il bambino deve essere riconosciuto come più impegnativo che il solo accudimento e rispecchiamento, perché, a tutti gli effetti, si ritrova ad interagire con un soggetto unico ed irripetibile: nella comunicazione affettiva con il bambino, quindi, per la mamma diventa fondamentale la capacità di sintonizzarsi e fare contatto con le sue emozioni e quelle del bambino, nonché la capacità di condividere ed essere disponibile emotivamente. Capacità che, purtroppo, non sempre sono pienamente sviluppate nella mamma o negli adulti di riferimento.

Evoluzioni della comunicazione affettiva

La capacità di comunicare affettivamente – o emotivamente – che la mamma è in grado di mettere in campo si incontra, pertanto, con la capacità dello specifico bambino, e tale interazione è un processo reciproco. Questo comporta che tra madre e bambino si instauri un vero e proprio sistema di regolazione affettiva che permette esperienze positive di contatto e relazione, di interazioni soddisfacenti tra mamma e bambino, oppure no.

Le interazioni tra mamma e bambino, cioè, possono avere successo o fallire, ma, in ogni caso, i fallimenti possono essere riparati; infatti, sia la mamma che il bambino cercano, a loro modo, di riuscire positivamente nell’interazione, tentando di riparare gli errori comunicativi. In questo sistema di regolazione, quando gli errori riescono ad essere riparati, la madre acquista un ruolo fondamentale per il bambino perché rende possibile la trasformazione delle emozioni negative in positive, grazie al successo della buona riuscita dell’incontro.

Questa funzione della madre, così importante, di trasformazione delle emozioni negative in positive si realizza anche quando le riesce di comprendere le emozioni negative del bambino, offrendo accoglienza, accettazione e supporto positivo ad esse. E queste esperienze di interazione, vissute più o meno positivamente, a seconda della riuscita, vengono registrate dal bambino e diventano la base su cui si formano tratti profondi della sua personalità,

Il bambino, in definitiva, è un soggetto attivo e Trevarthen evidenzia addirittura come il bambino abbia una sua capacità comunicativa precoce che gli permette di ingaggiare relazioni; non esprime solo bisogni, ma è anche un iniziatore di interazione.

In tutto questo, un ruolo fondamentale è ovviamente ricoperto dalle emozioni, intese come fonti principali di motivazione e regolazione delle interazioni, anticipando in questo ciò che anche gli studi di neurobiologia hanno evidenziato successivamente. Robert N. Emde (1992), in modo particolare, assegna alle emozioni un ruolo fondamentale all’interazione tra la mamma e il bambino, come una sorta di ponte tra i due, che marca e dà un significato a ciò che succede tra il mondo esterno e il mondo intrapsichico. Nell’importanza riconosciuta alle emozioni, inoltre, Emde da un particolare rilievo al ruolo delle emozioni positive e della validazione delle stesse (scaffolding) perché pongono la base per la fiducia e per l’incoraggiamento all’autonomia.

Dagli studi effettuati, Emde conclude, infatti, che se il bambino viene confermato e appoggiato nei suoi slanci di desiderio ed entusiasmo sperimenta la possibilità di andare oltre l’incapacità e la paura, costruendo una rappresentazione di sé, del mondo e della sua interazione con il mondo in termini ottimistici e positivi. Sulla base delle esperienze interazionali vissute, infatti, soprattutto in relazione alle emozioni positive, si creano delle rappresentazioni del rapporto tra sé e il mondo e queste rappresentazioni fungono da guida a livello di aspettative e motivazioni sia delle relazioni interpersonali che della vita intrapsichica, diventando, pertanto, dei regolatori anche del rapporto con sé.

E sulla formazione delle rappresentazioni derivate dalle esperienze ripetute ha posto particolarmente l’attenzione anche Daniel Stern (1985, 1993), il quale, prediligendo lo studio del bambino attraverso l’osservazione diretta – o Infant Research – pose le basi, all’interno del mondo psicoanalitico, per una nuova visione dello sviluppo umano. Dagli studi diretti sui bambini, infatti, Stern riconobbe quanto la natura intersoggettiva delle interazioni madre-bambino costituisca il fondamento della costruzione del sé. Il bambino interagisce attivamente e registra la qualità degli scambi con la madre o le figure di riferimento, codificati dal tono affettivo, o emotivo, delle esperienze vissute. Registra, quindi degli “schemi di essere con”, che diventano la base per rappresentazioni generalizzate delle interazioni tra sé e gli altri di riferimento; queste rappresentazioni, poi, vanno a costituire i riferimenti interni per le successive esperienze relazionali dell’individuo.

Con il contributo di Stern, quindi, si riconosce ulteriormente l’importanza delle emozioni quali codificatori di senso delle esperienze, si evidenzia la natura intersoggettiva delle interazioni della madre-bambino, si valorizza il ruolo fondamentale della sintonizzazione da parte della madre nei confronti degli stati affettivi del bambino e si rafforza l’idea della costruzione del sé attraverso l’interiorizzazione delle modalità relazionali ripetitive e stabili con la figura di riferimento.

Questi aspetti che nella ricerca sullo sviluppo si sono venuti progressivamente a delineare, ovvero, il riconoscimento del bambino come soggetto attivo nella relazione, l’importanza della sintonizzazione emotiva e la necessità di partecipare positivamente alle esperienze del bambino, costituiscono per Peter Fonagy (1995, 2001) la base anche per il processo di mentalizzazione, ovvero quel processo secondo il quale è possibile riconoscere e comprendere il proprio funzionamento e l’altrui in termini di “stati mentali”, cioè in termini di sentimenti, convinzioni, intenzioni, desideri, ecc.

La mentalizzazione è un processo metacognitivo per il quale è necessario aver sviluppato una teoria della mente, ovvero la funzione di potersi rappresentare lo stato mentale, proprio o dell’altro, al di là del comportamento manifesto; in altri termini, la mentalizzazione è la funzione che permette di riconoscere sé e l’altro come come soggetti. Secondo Fognagy, la mentalizzazione – o Funzione riflessiva – è fondamentale nella costruzione della relazione di attaccamento e nello sviluppo dell’individuo in quanto permette di muoversi in uno spazio disidentificato nel quale diventa possibile pensare a sé e all’altro, diventa possibile autoregolarsi e avere maggior padronanza nei confronti di ciò che accade.

Riconoscimento della comunicazione affettiva

Negli ultimi decenni, quindi, il percorso di ricerca nell’ambito dello sviluppo del bambino ha evidenziato numerosi dati secondo i quali la comunicazione affettiva svolge un ruolo inequivocabile e determinante ai fini dello sviluppo sano ed armonico del piccolo. I contributi dei ricercatori più significativi, che si sono susseguiti dall’introduzione del modello dell’attaccamento nello studio dello sviluppo infantile, e che hanno caratterizzato appunto la ricerca negli ultimi decenni, hanno portato alla chiarificazione di uno dei concetti fondamentali dell’interazione madre-bambino – quello della responsività – ovvero della capacità di rispondere alle esigenze del bambino; grazie a questi contributi, il concetto di responsività prende una luce più complessa e articolata, rispetto alla nozione tradizionale di responsività intesa come risposta pronta e adeguata ai bisogni del bambino.

Si configura, cioè, una responsività intesa come capacità di comunicare affettivamente, o emotivamente, con il bambino, di partecipare, cioè, ad un processo reciproco di interazione dove la condivisione e validazione delle emozioni del bambino operano una trasformazione delle stesse; un processo interattivo attraverso il quale la madre opera una sorta di autoregolazione vicaria che pone le base per lo sviluppo armonico del sé del bambino e per la trasmissione dei modelli operativi interni. Si tratta, di fatto, di responsività reciproca, in quanto la diade mamma-bambino costituisce un sistema, in ultima analisi, di regolazione affettiva; per questo è così importante il grado di accessibilità e disponibilità emotiva a lasciarsi toccare dagli stati affetti del bambino.

Dagli studi sullo sviluppo del bambino, i fattori costituenti della responsività comunicativa posso essere, quindi, così riassunti:

Disponibilità emotiva e accessibilità. L’adulto di riferimento è aperto ai sentimenti del bambino, li riconosce e li ascolta: è, in altri termini, in contatto con la sua esperienza ed è disponibile al contatto. Si permette, cioè, di essere toccato emotivamente dal bambino, prestandogli ascolto ed attenzione.

Sintonizzazione emotiva e capacità cogliere gli stati emotivi. L’adulto di riferimento ha una capacità di ascolto sufficiente per captare gli stati d’animo del bambino e sintonizzarsi con essi: è, in altri termini, in contatto con l’esperienza del bambino e vi partecipa con interesse.

Rispecchiamento, conferma e validazione dei sentimenti del bambino. L’adulto di riferimento ha la capacità di rimandare un feedback al bambino sulla sua esperienza, nominando ciò che accade e dandogli un senso; è in grado, cioè, di accettare e dare valore a ciò che il bambino sperimenta, sia nei termini di emozioni dolorose, che nei termini di emozioni positive.

Capacità metacognitiva e riflessiva sul bambino, grazie alla quale poterlo pensare come soggetto autonomo. L’adulto di riferimento ha la capacità di interagire con il bambino con rispetto e considerazione; è in grado, cioè di trattarlo come un individuo unico ed irripetibile, depositario e protagonista di un’esperienza interiore tutta da scoprire e da far fiorire.

La comunicazione affettiva è ciò che fa la differenza sostanziale nello sviluppo del bambino; la capacità di comunicare partecipando emotivamente ci dà degli elementi di riferimento fondamentale sia in ambito clinico che in ambito educativo e preventivo. Certamente riconosce e focalizza l’intrinseca natura relazionale dell’essere umano, sin dalle sue fasi iniziali dello sviluppo. Da un certo punto di vista, si pone come paradigma per una sfida culturale anche nelle relazioni tra adulti – sicuramente quelle affettive, ma non solo: attualmente, infatti, vi sono segnali sempre più forti di quanto la qualità generale delle relazioni umane sia insoddisfacente, caratterizzate, purtroppo da ostilità, manipolazione, competizione, disprezzo, ecc. Molto probabilmente la comunicazione affettiva non garantisce solamente il miglior sviluppo dell’individuo, ma anche il miglior proseguimento nella vita.

 

Riferimenti bibliografici

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Bolwby, J. (1982) Attaccamento e Perdita, vol.1: L’attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri. Torino 1988.

Emde, R.N. (1992) Emozioni positive in psicanalisi. Tr. it. in Riva Crugnola C. (a cura di) La comunicazione affettiva tra il bambino e suoi partner. Raffaello Cortina Editore. Milano 1999.

Fonagy, P., et. al. (1995) Attaccamento, Sé riflessivo e disturbi borderline. Tr. it. in Riva Crugnola C. (a cura di) La comunicazione affettiva tra il bambino e suoi partner. Raffaello Cortina Editore. Milano 1999.

Spitz, R. (1965) Il primo anno di vita. Tr. it.  Armando, Roma 1973.

Stern, D.N. (1985), The interpersonal world of the infant, Basic Books, New York; tr.it. a cura di A. Biocca e L. Marghieri Biocca, Il mondo interpersonale del bambino. Bollati Boringhieri, Torino, 1987.

Stern, D.N. (1993) Il ruolo dei sentimenti per un Sé interpersonale. Tr. it. in: Le interazioni madre-bambino. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998.

Treverthen, C. (1984) Le emozioni nell’infanzia: regolatrici del controllo e delle relazioni interpersonali. Tr. it. in Riva Crugnola C. (a cura di) Lo sviluppo affettivo del bambino. Raffaello Cortina Editore. Milano 1993.

Tronick, E.Z. (1989) Le emozioni e la comunicazione affettiva nel bambino. Tr. it. in Riva Crugnola C. (a cura di) La comunicazione affettiva tra il bambino e suoi partner. Raffaello Cortina Editore. Milano 1999.